Che l’obiettivo dell’IJF sia quello di preservare e migliorare il judo non ci sono dubbi. Tuttavia c’è modo e modo. Il processo di rinnovamento del judo per mezzo del regolamento arbitrale iniziato circa due quadrienni olimpici fa è ancora in corso, con risultati discordanti. Non entrerò in valutazioni personali, ma voglio approfondire alcuni aspetti secondo me molto rilevanti.
I problemi che si cerca di risolvere grazie al regolamento arbitrale sono principalmente due:
- ottenere una maggiore spettacolarizzazione del judo;
- rendere il judo più semplice agli occhi di chi lo osserva.
È evidente che i due problemi succitati sono in stretta correlazione tra loro, ma più nel dettaglio, per rendere il judo più spettacolare bisognava agire su più fronti: a) aumentare il numero di azioni valutabili durante il combattimento; b) incentivare uno stile di combattimento più frontale favorendo tecniche di grande ampiezza; c) limitare i tempi di inattività dei combattenti. Dunque per rispondere ai punti a e b si è imposto il divieto assoluto della presa al di sotto della cintura (pena l’hansoku-make), per c e ancora parzialmente per b, semplicemente, si danno shido a raffica (i quali però servono solo in caso di parità).
Per semplificare il judo, per renderlo più fruibile alla massa, si è eliminato il koka, si è ridotto il tempo dell’osae-komi, e si è istituito il care-system con l’arbitro unico sul tatami.
Queste, in estrema sintesi, le modifiche al regolamento effettuate fin qui. Naturalmente ognuno è libero di schierarsi pro o contro queste modifiche, ma ciò su cui voglio focalizzare il mio discorso è il loro significato dal punto di vista dell’arte marziale. Infatti, secondo me lo shiai di judo, con questo regolamento, ha ulteriormente estremizzato la sua sportività.
Faccio subito un esempio: gli atleti in combattimento che assumono un atteggiamento di non combattività (sedere indietro, braccia tese, ossia il noto “judo negativo”) si beccano uno shido. Bene, ma storicamente da dove viene questa regola? Dunque, facciamo un salto indietro a prima della formalizzazione del randori da parte di Kano, quando ancora il Kodokan Judo era conosciuto ai più ancora come “Jiujitsu”. Partiamo dal judogi: le maniche dell’uwagi che arrivavano al gomito e zubon corti o calzamaglia (si veda Hancock H. Irving e Higashi Katsukuma, “Jigoro Kano o l’origine del judo“, Luni Editrice, 2005). Poi si consideri la possibilità da parte dei judoka di effettuare gli atemi. Kano intervenne subito per vietare gli atemi dal randori, ma già questa limitazione aveva una contropartita: il judoka, sapendo che il suo avversario non può sferrargli un atemi, semplicemente non se ne preoccupa.
Quindi la conseguenza odierna è che gli atleti per evitare l’attacco dell’avversario si mettono a testa bassa in jigo-tai. Perché l’obiettivo -giustamente, dal punto di vista dell’ottenimento del risultato sportivo- è non subire l’attacco, quindi non permettere all’avversario di ottenere punti, e infine di vincere. Perciò l’arbitro è tenuto a penalizzare il judo negativo: perché impedisce l’attacco dell’altro atleta, ossia impedisce sul nascere potenziali proiezioni spettacolari, il che chiude perfettamente il cerchio sul punto 1; e non certo perché a testa bassa in jigo-tai si può beccare un naname-uchi alla tempia che -se gli va bene- lo manda direttamente in coma!
Il regolamento arbitrale attuale è un insieme di regole che, nate originariamente o per limitare danni ai contendenti o per motivi pratici (es: uscita dall’area di combattimento), oggi riducono il judo a mero sport di combattimento.
E qui si apre un altro capitolo: quello dei legami tra judo e gli altri sport di combattimento. Notizia piuttosto recente è la presa di posizione dell’IJF che sancisce il divieto per qualsiasi judoka di livello internazionale di partecipare ad una qualsiasi manifestazione sportiva di qualsivoglia altro sport di combattimento, come l’MMA.
Un estratto dal comunicato ufficiale di Marius Vizer, Presidente dell’IJF: [Testo integrale]
The International Judo Federation and its Member Federations have extensively invested in training and competitions programs, setting up of structures, equipment donation and media coverage. All these investments must be preserved, like in any other sports, having in their rules a return toward the formative structures. […]
All our achievements, as well as our objective to have the team event for the first time in Tokyo 2020, strengthens our conviction that we must maintain our sport in a homogenous, unitary, clean and integral community, in order to achieve all our other objectives for the following period. Judo wishes to preserve its heritage.
Anche qui, non voglio addentrarmi in un’analisi del sottinteso, ma non prendiamoci in giro. L’IJF è al pari di ogni altra federazione mondiale di qualsiasi sport prima di tutto un’organizzazione che mira alla tutela degli interessi dei propri associati. E fin qui sarebbe anche una cosa positiva, se non fosse che in realtà oggi bisognerebbe sostituire la parola “associati” con il più opportuno “partners”. Perché difatti sappiamo bene che il giro di interessi economici intorno ad uno sport è tale da essere di vitale importanza per lo sport stesso. Se uno sport ha la necessità di diventare più spettacolare, è perché deve diventare un prodotto più appetibile sul mercato dei diritti televisivi, deve diventare un prodotto non solo capace di garantire il ritorno dell’investimento dei partners bensì un prodotto capace di generare profitto.
E se i migliori atleti/judoka vanno a fare MMA? Le cifre delle borse dell’UFC vanno dai 4 ai 6 zeri, per incontro, è una tentazione forte per molti. E infatti alcuni ci sono già caduti, ma prima che il fenomeno si espandesse, c’è stato il divieto formale dell’IJF. La motivazione ufficiale è evitare l'”imbastardimento” del judo con contaminazioni provenienti dagli altri sport di combattimento. Ma chi ci crede!?
Non c’è bisogno di andare troppo indietro nel tempo, già negli anni ’80 si pose lo stesso problema col sambo e con la lotta libera, ma non mi sembra che maestri come Kashiwazaki siano affatto esponenti di un judo “contaminato”. [Sambo and Judo Legends at the World Sambo Championship 2014]
Scrive Alexander Iatskevich, istruttore di sambo e bronzo a Mosca 1980:
1972, the Japanese Judo legends Katsuhiko Kashiwazaki and Nobuyuki Sato entered a national Sambo competition in Riga, Latvia. […] When Kashiwazaki and Sato beat the Soviet Union’s best, at their own game, and went home with gold medals, it was a revelation. I was convinced at that moment that Judo had to be something special for Judo players to come along and beat Sambo players.
Certo, il sambo è stata l’arma con cui i russi hanno potuto rivaleggiare nel judo contro i giapponesi per almeno due decenni, ma questa vocazione purista dell’IJF in realtà è solo una manovra politica di stampo conservatore, uno sterile tentativo di fermare un processo naturale ben più generale: l’evoluzione.
Sia che si resti confinati nella dimensione sportiva, sia che si allarghi l’orizzonte all’arte marziale, tecniche e metodologie didattiche e di allenamento seguono una rigida selezione naturale, la medesima che ha portato Kano a sintetizzare nel judo l’allora decrepito jujutsu. Con ciò non voglio dire che le MMA sono la naturale evoluzione del judo (figuriamoci, ci mancherebbe altro!), ma soltanto che il judo non deve rimanere sotto la campana di vetro della sua “purezza”. Che poi non è certo quella esibita alle gare odierne…
Se già Kano in prima persona promosse un’inclusione del bo-jutsu nel judo, se già nel Kodokan-goshin-jutsu prendiamo in prestito kote-hineri e kote-gaeshi dall’aikido, allora perché non essere più elastici in queste convergenze? Tanto chi vuole fare judo, quello vero, non solo le gare di shiai e di kata, lo può fare (e infatti lo fa) anche al di fuori dell’IJF.